recensioni di Alucard-666

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  1. Alucard-666
     
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    RED

    Di Robert Schwentke, USA/Canada 2010, 1h51
    Con Bruce Willis, Morgan Freeman, John Malkovich, Brian Cox, Helen Mirren, Mary Louise Parker, Karl Urban


    Scusate se ho fatto poche recensioni nell'ultimo periodo, ma ho traslocato, e la convivenza non lascia molto tempo libero, comunque eccoci a questo film tratto da un fumetto poco conosciuto quantomeno in Italia, e cioè "Red" che parla in pratica di
    un gruppo di ex agenti della CIA ora in pensione si vedono costretti a tornare in campo per evitare di essere uccisi a causa della conoscenza di alcuni scomodi segreti che possono turbare la vita politica degli USA. La squadra si compone oltre ai 4 ex Cia di una ex spia russa e di una impiegata dell'ufficio pensioni con cui uno dei quattro flirtava da mesi.
    Partiamo dalla fine: il film risulta davvero gradevole e riuscito grazie alla la giusta miscela tra action e ironia non disdegnando ovviamente inseguimenti e sparatorie anche con armi non proprio convenzionali. Il cast è assolutamente di prim'ordine e pare molto affiatato e ben calato nella parte. Insomma questi ottimi attori non sono lì a fare solo da richiamo per il film. Una menzione particolare per John Malcovich che interpreta uno degli agenti della CIA e che era stato esposto a dosi giornaliere di LSD per 11 anni a sua insaputa ed ora è ovviamente paranoico. Il personaggio è davvero esilarante e devo dire anche a Helen Mirren in un ruolo insolito per lei attrice shakespeariana di una specie di nonna killer a cui dà una certa perfidia sia negli sguardi sia negli atteggiamenti per poi sciogliersi di fronte al suo vecchio amante russo.
    Insomma il film scorre liscio e divertente....un buon prodotto da vedere sicuramente!!!

    Alla Prossima Leggendari......:)
     
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  2. Alucard-666
     
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    L'ULTIMO DEI MOHICANI

    Per questo film ho scelto di non fare io la recensione ma di postare un testo di critica cinematografico, il mio consiglio è di leggerlo e poi vedervi subito di filato il film e penso che vi accorgerete che la visione dopo aver letto questa analisi sarà più completa e soddisfacente di già quanto lo sia da semplice profano.

    "L'Ultimo dei Mohicani" rappresenta la rinascita del classicismo hollywoodiano. Con questo film,Mann si impone come l'archeologo atteso per il rinnovamento di un cinema che ha preso altre strade. Dopo aver dato una definizione visiva al decennio precedente, il regista la fa morire, negandola con uno "scope" denso di elementi, indicazioni e anima con radici lontanissime, in una terra - non soltanto diegetica - che purtroppo non esiste più. Assuefatto alle coordinate del luccichio postmoderno che Mann stesso ha contribuito a creare, il pubblico si trova di fronte a quello che si potrebbe chiamare, con faciloneria ma con indubbio valore popolare, il "filmone classico". Gli anni '90 recuperano la Hollywood che fu e Michael Mann rimarrà isolato: il cinema imboccherà altre vie che lo porteranno all'appannamento (per non dire di peggio). Da "L'Ultimo dei Mohicani" in poi, tutti i film di Mann saranno i depositari della bellezza da custodire, oggetti preziosi ai quali non si deve né si può rinunciare.
    Per estrarre dalle sue fondamenta il classico, Mann parte non a caso dal basso. Come dice lui stesso nell'intervento di "Close-Up" per la BBC: "Il film va verso l'alto". Il film dopo una panoramica di montagne e vallate mozzafiato con un movimento di macchina a sinistra, comincia con una splendida scena di corsa nell'intrico della foresta. Da qui, progressivamente, il film sarà un continuo salire, fino alla conclusione sullo stesso panorama mozzafiato iniziale, con un movimento di macchina stavolta verso destra, come se si trattasse della chiusura di un cerchio. Questo panorama è la meta che il film e Mann si sono prefissati di raggiungere, il tesoro da (ri)scoprire, proprio nel senso di (ri)esporre alla vista, restituire all'uomo come spettatore. Perché, come già rilevato, quello di Mann è un cinema di impellenza al guardare, della necessità dello sguardo, qui ancora più importante perché la nostra visione riguarda i gioielli del passato cinematografico. Quel panorama che alla fine ritorna significa una conquista, il raggiungimento di una meta. Dopo averci fatto vedere ciò che dovremmo riconquistare, Mann comincia la salita, aticosissima. Per due ore i personaggi non fanno altro che correre, perché se si vuole (ri)avere il passato, si deve battere il tempo, forte e nemico, e controvento. Il film procede di corsa, inarrestabile. Fa tornare alla mente "Jericho Mile", dove Murphy correva anch'egli per ottenere a tutti i costi qualcosa. Il film, a ben vedere, è il risultato della corsa di Murphy: se il carcerato correva incontro a un passato che non esisteva più (il cinema hollywoodiano classico), tentando di riottenerlo, Hawkeye, Chingachgook e Uncas sono coloro che riusciranno a farlo finalmente riaffiorare, quel passato, a imporlo in tutta la sua maestosità. Murphy vedeva davanti a sé il profilarsi di una nuova epoca e di un nuovo modo di fare cinema, gli anni '80: Hawkeye e Chingachgook osservano con Cora l'enormità di ciò che hanno disseppellito. Come "Jericho Mile", dunque, "L'Ultimo dei Mohicani" è un'opera di corsa. Dal basso verso l'alto, come una rinascita. E se di rinascita si parla, non può che essere dolorosa e sanguinosa, e comportare sacrifici. E' la rinascita di una terra ferita, massacrata, dove le parti sono apparentemente ben coda, com'è la guerra (ogni guerra), dove i ruoli nascono e muoiono con estrema facilità, e la giustezza di uno schieramento e di una bandiera perde ogni valore. "You Are right Mr.Poe. We don not understand what is happening here" ("Ha ragione Mr.Poe. Noi non comprendiamo cosa sta accadendo qui"), dice Cora a Hawkeye. La guerra è un meccanismo che non si può comprendere: non la comprende l'inglese Cora, e forse non la comprendono nemmeno i mohicani e gli uroni. Le cose, in guerra, sono solo caos. Sembra bizzarro, eppure l'immagine post-moderna di Mann, utilizzata perfettamente nel suo cinema degli anni '80 per raccontare una realtà mai ben determinata e sempre sfuggente, doppia o più, potrebbe adattarsi allo scenario della guerra, anch'essa una realtà dove gli eventi si sottraggono a una chiara sistemazione. L'immagine del ponte su cui passa la carrozza col maggiore Duncan Heyward, subito dopo la scena a casa degli amici di Hawkeye, riflesso nelle acque sottastanti come in uno specchio, non è certo casuale. Quella di Hawkeye, Chingachgook e Uncas è una corsa in un mondo dove l'ostacolo - allo scopo, alla vista, alla comprensione - è un corpo vivo e agente, non sempre materiale. Nella sequenza dell'imboscata, Hawkeye cerca di vedere Cora e Alice all'altra estremità della colonna inglese ma il suo sguardo è ostacolato dalla massa delle persone; poi cerca di raggiungerle in mezzo agli uomini, al sangue e al nemico. Anche all'epoca dei mohicani, dunque, la concezione visiva di Mann suggerisce una realtà poco definita che l'occhio dell'uomo coglie forse solo in piccola parte (ma sotto, a fianco, sopra o addirittura dentro, ce ne sono altre, di parti, proprio come in quel riflesso sotto il ponte, limpido, cristallino, reale), o dentro cui l'uomo si perde, come nelle violente acque della cascata nelle quali si gettano Hawkeye, Chingachgook e Uncas per fuggire agli uroni. Ancora acqua, nel cinema di Michael Mann: non più il mare, ma gli spruzzi dirompenti di un manto acquoso che avvolge i personaggi, e che dev'essere salito o sceso, sempre di corsa, sempre per allontanare il pericolo e avvicinare la meta. Hawkeye, Chingachgook e Uncas si gettano nella cascata, e subito dopo, a terra, ricominciano la salita. Senza un attimo di tregua. Nel primo esplicito momento di ascesa, dopo l'agguato degli uroni alla scorta inglese, guidata dal maggiore Heyward e incaricata di accompagnare Cora e Alice a Fort William Henry, il film dichiara la sua natura incredibilmente "intima". Si tratta forse del film più romantico di Mann, che ancora una volta dimostra un equilibrio autoriale-hollywoodiano, accettando le regole del cinema americano mainstream, ma personalizzandole con una straordinaria capacità descrittiva delle pulsioni, della bellezza e dei gesti d'amore e di dedizione. Durante il tragitto verso il forte, mentre il gruppo - composto da Hawkeye, Chingachgook, Uncas, Cora, Alice e il maggiore Hayward - deve salire le rocce scivolose di una piccola cascata, Mann si sofferma con un ralenti sul volto di Uncas incantato a guardare la spaurita Alice, in leggera difficoltà a scalare un masso. In questo attimo, non solo si comprende appieno il sentimento di Uncas verso Alice, ma si è testimoni del romanticismo umano di Mann, fatto di istanti in cui c'è tutto un mondo e tutto un uomo. Mann, che il più delle volte è anche dietro la macchina da presa per stare più vicino ai suoi interpreti/personaggi, utilizza il primo piano con pudore, ma anche con una consapevole profondità intimistica. Il film è costituito, come in tutti i film di Mann, da incontri di coppie. Soltanto Chingachgook resta solo: l'ultimo della sua razza, appunto. Hawkeye-Cora e Uncas-Alice sono i binomi romantici; colonnello Munro-generale Montcalm e Magua-generale Montcalm sono i binomi guerrieri. C'è anche il rebe ma intensissimo binomio di morte e di desiderio univoco tra Alice e Magua nel finale. Il maggiore Hayward è un polo neutro, un termine spaiato che tenta di formare una coppia romantica con Cora, instaura un binomio di guerra-rivalità con Hawkeye e viene messo da parte nel corso degli eventi dal binomio di guerra col colonnello Munro. Mann adotta il campo/controcampo per mettere in scena le coppie, con l'eccezione di Uncas/Alice che beneficiano di una rappresentazione più sfuggente e nello stesso tempo più ampia. Ma il suo è un campo/controcampo non propriamente classico, non rigoroso come quello di "Manhunter". La coppia Hawkeye-Cora è la testimonianza dell'aggancio hollywoodiano del cinema di Mann, legato a doppio filo a certi voleri dello star system imposti dai grossi studios, distaccandosene poi per altri versi. Daniel Day-Lewis e Madeleine Stowe (che in seguito non raggiungerà mai più la bellezza senza fine di Cora) appartengono alla famiglia delle star del cinema, e Mann ne è pienamente consapevole. Anzi, visto che il cinema classico consiste anche in questo, il regista esalta il fiero splendore di entrambi, con un Day-Lewis dai capelli lunghi e scompigliati (spesso troppo cotonati per le contingenze), il fisico asciutto e tornito, la prestanza irresistibile, e la Stowe prima intimidita poi ardimentosa, dal volto come dipinto e dalla femminilità accecante. La coppia è il cuore hollywoodiano della pellicola. Le scene a loro dedicate nel forte sono di estrema consapevolezza classica: per la carica passionale, per il forte sentimento e per la tensione della messinscena di Mann, arrivano dritte allo spettatore, commuovendolo. "Cosa state guardando, signore?/Sto guardando lei, signorina"): questo dialogo tra Cora e Hawkeye avviene in un momento di quasi insostenibile bellezza, con la macchina da presa che indugia sulla Stowe che abbassa il viso, poi lo rialza sorridendo con una luminosità raggiante. Ecco la necessità dello sguardo nel cinema di Mann e in questo caso si tratta di uno sguardo intimo, di stupefazione amorosa, forse ancora più impellente in tempo di guerra. Poi, con un montaggio alternato, vediamo Hawkeye e Cora, con in sottofondo lo score di Trevor Jones basato sul brano tradizionale-folcloristico "The Gael" scritto da Dougie Maclean, cercarsi bramosamente tra la confusione del forte, trovarsi e finalmente unirsi sullo sfondo di un panorama mozzafiato che potrebbe venire etichettato come cartolinesco, ma che è invece romanticamente e classicamente cinematografico (fotografato di nuovo da Dante Spinotti con un'accentuazione antinaturalistica per i colori forti: si veda anche il verde della foresta nella sequenza di caccia iniziale o dell'erba nella scena della seconda imboscata, il rosso delle giubbe degli inglesi nella stessa scena, il marrone arancio dei corpi degli uroni). Già prima, nella scena del dialogo tra Hawkeye e Cora sotto il cielo stellato dopo il rinvenimento dei corpi degli amici coloni, Mann rivela la sua capacità nel mettere in scena la profondità e il rispetto, in una parola l'umanità dei personaggi, utilizzando il silenzio. Quando Hawkeye dice a Cora i nomi degli amici massacrati dagli uroni, John e Alexandra, segue tra i due un lungo attimo di discrezione per la morte, un silenzio carico di senso. E' qui che si esplicita l'uso di quel campo/controcampo particolare, che ritornerà sempre fino alla fine del film, per tutte le altre coppie: utilizzato trasversalmente, è un campo/controcampo largo, in un certo qual modo più arioso. Sono presenti nell'inquadratura entrambi i personaggi, l'uno ripreso quasi sempre di tre quarti mai perpendicolare allo schermo, l'altro a lato dell'immagine, con la nuca sfocata rivolta all'occhio del pubblico. Rispetto alla strutturazione dei dialoghi nei film precendenti di Mann, si tratta di sequenze più aperte (come accadrà anche nelle pellicole successive), quasi che il regista vi riponga una speranza maggiore nonostante il contesto: una speranza di unione, di (ri)sistemazione delle cose, ovviamente delusa, almeno per la maggior parte. Ma rimane la sensazione che in tali momenti di coppia si sia voluto dare più respiro all'immagine. Il dialogo tra Hawkeye e Cora attraverso le sbarre della cella non possiede la claustrofobia astratta e la severità asfittica della sequenza tra Graham e Lector in "Manhunter", ma concede di più: Mann si fa da parte, lasciando che entrambi i personaggi partecipino al quadro. E' lo stesso meccanismo che torna in tutte le sequenze con le altre coppie come protagoniste: nell'incontro sul campo tra il colonnello Munro e il generale Montcalm; nel dialogo notturno tra Magua e il generale Montcalm nella foresta. Il campo/controcampo più rigido e impietoso dell'intero film è quello finale tra Magua e Alice sullo strapiombo: duramente frontale, chiuso ai lati, mortale. Qui Alice comprende la furia distruttiva della guerra e, per raggiungere Uncas, finora forse mai veramente conosciuto, si getta nel vuoto, arrendendosi del tutto a quell'attrazione per la vertigine che è abbandono, e di cui aveva già sentito il richiamo vicino alla cascata, sottraendosene all'ultimo momento proprio grazie a Uncas con un abbraccio al ralenti. Gli ultimi 20 minuti del film, quasi senza dialoghi, con il brano "Promentory" di Trevor Jones che batte imperterrito scandendo l'azione, sono tra le scene più strazianti mai girate da Mann. "Promentory" incomincia quando il grande capo degli uroni, Sachem, decreta le sorti del maggiore Heyward, Alice, Cora e Hawkeye. Da lì in poi, ogni personaggio si troverà di ronte al dolore incalcolabile (ma comunque messo in conto) della perdita: Cora perde Heyward e Alice; Chingachgook, Hawkeye e Alice perdono Uncas (che saluta per sempre il padre, con una mano sulla spalla, come in possesso di una consapevolezza carica di presagi); tutti perdono un mondo, vedendone uno nuovo profilarsi all'orizzonte. Sono 20 minuti di sfaldamento definitivo dopo che, a seguire la scena di caccia, il film si era aperto con un ritrovo familiare a tavola, nella casa di John e Alexandra, una visione di armonia già apparsa nell'episodio di "Miami Vice - Golden Triangle Part.II", e che ritroveremo in "Heat e Alì". "Ti troverò" si dicono in due momenti diversi Cora e Hawkeye: in un universo di ostacoli, materiali e non, e di sangue, dove l'armonia appare irraggiungibile, dove l'urgenza di guardare offre sia bellezza che morte, dove l'unione di sgretola, il bianco indiano e la donna inglese sono i soli - insieme all'ultimo dei mohicani, Chingachgook - a poter testimoniare una perdita, che è una e mille insieme, e una nascita. "La frontiera è per mio figlio bianco, la sua donna e i loro bambini. E un giorno non ci saranno più frontiere. E anche uomini come te scompariranno, proprio come i mohicani. E arriveranno nuove persone, lavoreranno, faticheranno. Alcuni riusciranno a costruirsi la loro vita. Ma un tempo.....noi eravamo qui": sono le ultime parole di Chingachgook (mancanti nella versione cinematografica), davanti al panoramo sconfinato di cielo e di terra prima che il film si chiuda. Tratto dal romanzo omonimo di James Fenimore Cooper e dalla sceneggiatura di Philip Dunne per la pellicola del 1936 "Il Re Dei Pellirossa", "L'Ultimo dei Mohicani" vede come "visual consultant" e regista della seconda unità Gusmano Cesaretti. Trevor Jones e Randy Edelman compongono una musica epica molto funzionale, divisa nettamente in due tronconi: uno, di Jones, se vogliamo più eclettico e con qualche influenza elettronica; l'altro, di Edelman, più tradizionalmente e convenzionalmente classico, di ampio respiro. Mann, nel DvD, dedicato a lui e al suo cinema, dice: "Ho fin da piccolo un'immagine paurosa degli indiani". Questo e "l'ardore di preservare la vita in mezzo al disastro, alla guerra", sono i motivi che hanno spinto il regista verso il film.

    (fonte libriccino su Michael Mann, della Castoldi).

     
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91 replies since 20/6/2009, 12:41   1008 views
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